“Un baule impolverato” di Barbara Pasquariello


“Un Baule impolverato” di Barbara Pasquariello

Un baule impolverato

Il loro desiderio più grande era sempre stato quello di poter invecchiare insieme e  trascorrere il buen retiro su una pilotina, ormeggiata in uno dei canali dell’isola di Marken, a nord di Amsterdam. Possibilmente una pilotina color blu Klein con tendine a quadretti  rosa pallido, perché se si sogna allora è bene farlo a colori. Quel desiderio era germogliato durante i diversi viaggi che, in gioventù, avevano fatto in  giro per l’Europa.  

Certo, c’era anche un piano di riserva, ovvero una finca in collina, vista mare, in Andalusia,  dove il clima sarebbe stato senz’altro più temperato per quelle ossa acciaccate che si  sarebbero portati appresso. Il tempo per meditare adeguatamente sulla scelta non sarebbe mancato. Ma non tutte le favole hanno un lieto fine. 

Maud aveva 45 anni quando Bart morì. Improvvisamente, una domenica mattina di  novembre. Strappato alla vita e alle braccia di lei, senza preavviso alcuno, senza nemmeno  la possibilità di un ultimo saluto.  Strana la vita. Maud era già rimasta vedova 18 anni prima, quando aveva 27 anni.  Per Maud gli anni a seguire furono caratterizzati da un dolore difficile da sopportare,  smarrimento e profonda solitudine. Ma nei momenti in cui il dolore dava tregua,  riaffioravano i ricordi e i sogni spezzati.   Il nord Europa la chiamava fortemente. Le appariva nei sogni, nelle vecchie fotografie scovate tra le pagine dei libri di Bart e attraverso coincidenze singolari, quelle stesse che  avevano fatto sì che Bart e Maud incrociassero le loro vite, molti anni prima. La tentazione di partire si faceva ogni giorno più forte, d’altro canto cosa mai poteva  trattenerla?  

La paura di non reggere il peso dei ricordi, la malinconia e lo spaesamento scatenato da  un nuovo contesto, lontano e differente dalla zona comfort nella quale si era avviluppata negli ultimi anni, erano senza dubbio le principali voci della lunga lista. Qualche mese dopo la morte di Bart, Maud aveva lasciato la casa nella quale avevano  vissuto negli ultimi dieci anni. Una casa bellissima, in aperta campagna ma molto isolata,  troppo per poter continuare a viverci in solitudine. 

Dai quattrocento metri quadri che aveva abitato fino a quel momento, Maud aveva  traslocato in un sottotetto molto accogliente e luminoso, ma di appena due stanze. La maggior parte degli arredi della vecchia casa erano stati regalati agli amici più cari. Una  scelta pensata a lungo che l’aveva portata a decidere che quei mobili, quegli oggetti,  dovessero continuare a vivere proprio in quelle case, nel loro cerchio magico di affetti. Nella soffitta del sottotetto aveva accuratamente accatastato tutto quello da cui  emotivamente non era riuscita a separarsi. Due vecchi bauli in legno e diversi scatoloni,  che occupavano l’intera parete della soffitta. 

Una domenica di maggio successe un fatto singolare. Uno sciame di api era arrivato nella  nuova casa, creando un gran scompiglio.  Le api, dopo aver in un primo momento assediato il giardino, avevano trovato riparo sopra  il tetto, agglomerandosi fittamente sulle tegole a lato del lucernario, unico punto di luce  naturale della soffitta. 

Il tetto aveva grandi travi in legno e solaio a tavelle. Il ronzio era assordante. Quella nube  di simpatici imenotteri in alcuni momenti adombrava l’intera stanza. Una sciamatura naturale è un evento straordinario. Si dice che sia di buon auspicio. Le api rimasero sul tetto per quasi 3 giorni. Impossibile recuperarle a quella altezza. Poi, il  quarto giorno, decisero di trasferirsi sull’abete in giardino e da lì a poco furono messe in  salvo grazie all’intervento di un apicoltore esperto nel recupero sciami. Durante i giorni di permanenza di queste straordinarie e numerose ospiti, Maud frequentò  spesso la soffitta, sia per tenere monitorata la situazione sia perché lo stare con il naso  all’insù ad osservare tutto quel via vai le restituiva una piacevole sensazione di benessere.  Si sedeva a terra appoggiando la testa al bordo di uno dei due bauli di legno, e osservava.  Dopo il primo giorno, per rendere ancora più comoda la postazione, Maud si era  organizzata stendendo a terra un vecchio tappeto e un cuscino. In quel tempo sospeso,  trascorso in soffitta, si rese conto che la stanza era impregnata di odori a lei familiari.  In un primo momento, entrando, l’olfatto veniva colpito dall’odore pungente della  polvere, ma prolungando la permanenza il sistema ricettivo veniva sollecitato da altri  profumi che però non riusciva a codificare.  

La memoria olfattiva si attivò rapidamente e bastò un attimo per capire che era proprio  quel baule ad emettere quelle essenze. E come in un balzo spazio temporale Maud si trovò catapultata nella vecchia casa, nella camera da letto sua e di Bart, tra quelle lenzuola che  sapevano di sandalo. 

Quel baule, un tempo, conteneva la biancheria per il letto e in fase di restauro era stato  trattato da Bart con olio di sandalo acquistato nel sud dell’India in uno dei loro viaggi. Erano passati più di quattro anni da quando il baule se ne stava chiuso e impolverato in  quella soffitta, ma quell’essenza di legno persisteva fortemente, così come i ricordi di cui  si faceva custode.  

La pianta di sandalo, il Santalum Alba, è ora protetta, così come lo sono le api. Sono due  specie, vegetali e animali, in via di estinzione.  Ma i ricordi non si possono estinguere.  Nei giorni successivi Maud prese coraggio e decise di aprire il baule.  Non ricordava cosa esattamente contenesse.  

In un primo strato si trovava il proiettore con diversi raccoglitori di diapositive a colori,  una busta con cavi elettrici di chissà quale apparecchio e una grossa borsa piena di tende.  Già, nella vecchia casa c’erano quattordici finestre, nella nuova soltanto quattro.  Nello strato inferiore c’erano scatole da scarpe piene di fotografie, alcuni libri di cucina, due vecchie casse dell’impianto stereo, dischi in vinile e una pesante busta piena di sassi di  fiume. 

Ma sul fondo, a far contrasto con la chiara carta “Fiorentina” con cui il baule era stato minuziosamente rivestito, si scorgeva una immagine.  Una cartolina forse? Maud dovette svuotarlo quasi completamente per estrarla. Era una fotografia. Maud si sedette sul tappeto con la foto in mano. Che cos’era quella fotografia? Perché era  lì, sola, sul fondo del baule? E soprattutto perché non riusciva a collocarla temporalmente,  a contestualizzarla? 

Passò un po’ di tempo con quella foto in mano, ogni tanto alzava gli occhi al lucernario  dove però non c’erano più le api ad ispirarla. Posò poi la foto sul tappeto e andò a  prepararsi una tazza di caffè. Maud tornò nella soffitta con il caffè fumante e l’inseparabile tabacco. Un insano vizio,  certo, dal quale però traeva spesso stimolo per la sua fantasia creatrice. Era in piedi, sul  tappeto e guardando la foto dall’alto ebbe un improvviso cedimento all’altezza delle  ginocchia. 

La foto, in bianco e nero, ritraeva una porzione di un vecchio tappeto persiano con un  motivo floreale molto simile al tappeto che Maud aveva sotto ai suoi piedi. Una  similitudine impressionante. Al centro della foto, tra quei fiori tessuti, un disegno fatto quasi sicuramente da un  bambino.  Dall’alto Maud vedeva doppio.  L’immagine alla quale assisteva era la stessa scena rappresentata nella foto.  Una foto nella foto. 

Il disegno raffigurava una donna rubizza e sorridente, con tanti palloncini tenuti nella  mano destra. Nella mano sinistra una piccola borsetta. Sui fili di quei palloncini delle  scritte. Maud prese allora una lente di ingrandimento e fu sorpresa nel riconoscere dei  nomi in quelle scritte. Ventisette palloncini e ventisei nomi propri, femminili e maschili.  Il caffè nel frattempo si era raffreddato mentre Maud fantasticava su quell’immagine.  Il primo pensiero fu che quella donna potesse essere un’insegnante di scuola elementare e  che quei palloncini rappresentassero i bambini della sua classe. Forse un dono ricevuto a  fine anno scolastico.

Fu probabilmente quest’ultimo pensiero ad aprire un cassettino nella memoria di Maud.  Quella foto era stata un regalo ricevuto dalla figlia della proprietaria del piccolo hotel De  Zwaan, nell’immediata periferia di Amsterdam, dove avevano alloggiato circa dodici anni  prima durante uno dei loro viaggi. Quella bambina, di cui Maud non ricordava il nome, si  era affezionata a loro due in quei tre o forse quattro giorni di permanenza nella piccola  pensione, dopo che Bart le aveva recuperato l’aquilone, rimasto impigliato nella veranda  antistante l’ingresso del locale.  

La bambina, nel giorno della loro partenza, aveva posizionato sul tavolo della colazione  una busta di carta, legata con un sottile spago color indaco, contenente appunto quella  fotografia e un bulbo di tulipano, che però l’anno seguente si rivelò essere un narciso. Della foto non disse molto. Era un dono ricevuto da un’anziana signora che da anni  frequentava il loro hotel. Quella era solo una delle tante fotografie che la bambina aveva  ricevuto e collezionato nel tempo. Maud ricordò che la piccola aveva motivato la scelta  dicendo che siccome non aveva nessuna fotografia che raffigurasse un aquilone, quei  palloncini erano quanto di più simile potesse esprimere gratitudine, per la missione di  salvataggio messa in atto da Bart.  

Maud ricordò che, incuriosita, provò a chiedere alla madre chi fosse quella anziana signora  che regalava fotografie, ma la oste, quasi sorpresa dalla domanda, rispose sorridendo che  la figlia era nata “con la fotocamera in mano” oltre che con una fervida immaginazione.  Fu grazie al ritrovamento di quella fotografia sospesa nel tempo, che Maud poté iniziare a  ritessere i brandelli della sua vita. Era giunto il momento di rimettersi in cammino. Viaggiare di nuovo.  Recidere i fili di quei palloncini, lasciarli liberi, direzione Nord.


Barbara Pasquariello


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