MILLIMETRI DI STORIA
“La vita si misura in centimetri e in millimetri”: è sempre stato il mio motto personale. Confezionare vestiti e riprendere immagini con la mia cinepresa “8 millimetri Bell & Howell”, sono state due delle più belle passioni della mia vita.
Mi chiamo Abraham Zapruder, ho cucito vestiti su misura per centinaia di persone: lasciare sulla loro pelle il mio tocco personale era il mio vanto, così come imprimere su pellicola le immagini di una vita che scorre a volte molto velocemente senza lasciarci nemmeno il tempo di riflettere.
Ero felice del mio lavoro e del mio hobby, con l’augurio di tramandarli ambedue a figli e nipoti, e poter lasciare loro un segno di un tempo che fu.
Sono passati molti anni da quando iniziai il mio lavoro di assistente di sartoria a New York, per poi trasferirmi, nel 1941, qui a Dallas, meravigliosa città che mi ha fatto crescere, imparare e conoscere le mille sfaccettature della vita.
Con il tempo il mio piccolo studio lasciò il posto a un importante atelier di moda, all’altezza della mia esperienza. Si affacciava sulla bellissima e rinomata Elm Street, non lontano da Dealy Plaza, grosso polmone verde del centro città.
Dalle finestre del mio laboratorio potevo vedere sia le vecchie ville signorili della Dallas antica, sia i grossi palazzi che piano piano stavano spuntando come funghi nella Dallas moderna. Mi faceva comunque sempre piacere tornare la sera alla mia modesta casa, appena fuori città, ancora circondata da verdi prati e grossi campi coltivati.
Durante il lavoro mi fermavo volentieri tra una pausa e l’altra a riprendere, con la mia cinepresa modello “414 pd”, la vita che scorreva sotto le mie finestre: fotografie di vita quotidiana che più di una volta ancora oggi rivedo con piacere.
Non avrei però mai immaginato che alcuni di quei fotogrammi sarebbero stati immortalati tra i millimetri più dolorosi e funesti della storia americana.
Quello del 1963 fu un novembre alquanto capriccioso, giornate di pioggia fitta e uggiosa si intervallavano a giorni di sole tiepido e piacevole, in ogni modo l’arrivo del presidente John Fitzgerald Kennedy avrebbe dato sicuramente ottima pubblicità alla nostra città. Quel 22 novembre arrivai in ufficio alle otto, mentre una pioggerella insistente mi accompagnò fino all’ingresso.
“Buongiorno signor Zapruder”, mi salutò come ogni mattina la mia gentile segreteria, Marilyn Sitzman, mentre mi porgeva una tazza di caffè bollente.
“Oggi vedremo il nostro Presidente, è un evento importante da riprendere”, mi disse lei con un grosso sorriso stampato sulle labbra.
“Si, lo so”, risposi io “ma non ho portato con me la cinepresa, peccato ma sarà per la prossima volta”
“Ma come signor Zapruder, proprio oggi, un giorno così importante da rivivere e ricordare per sempre”. Rispose lei dispiaciuta.
“Sono uscito di fretta da casa stamani e non mi andava di tornare indietro a riprenderla”, risposi quasi per discolparmi.
“Ma non può lasciarsi sfuggire un simile evento, documenterà una giornata speciale. E poi se vuole può passare a prendere mio figlio, abitiamo vicini e gli farà davvero piacere esserci, il corteo non arriverà prima di mezzogiorno, di tempo ne ha quanto ne vuole, signor Zapruder”.
Marilyn mi aiutò gentilmente a infilarmi il cappotto, mentre sentivo che aveva avuto ragione a insistere, un bel ricordo da raccontare durante la mia vecchiaia.
Il tragitto dal laboratorio alla mia casa non era poi così lungo, e il tunnel sopra Elm Street mi avrebbe portato velocemente fuori città.
“Sì, in un’ora o poco più sarò di ritorno”, dissi alla mia segretaria, ringraziandola con un leggero sorriso”.
Attraversai le dolci campagne che abbracciavano Dallas e arrivai velocemente a casa; la mia 8 millimetri era lì quasi ad aspettarmi per riprendere un’altra stupenda giornata di festa. La villetta di casa Sitzman quasi baciava la mia e David, il figlio di Marilyn, avvisato dalla madre, era già sulla porta ad attendermi.
“Ciao David, bravo, andiamo, e prendi l’ombrello che ancora questa pioggerella non vuole smettere”, gli dissi.
Salimmo sulla mia auto, una vecchia Ford bianca, per riprendere la strada verso la sartoria, ma appena fuori il piccolo centro residenziale, sul rettilineo di Sutherland Avenue, ancora in aperta campagna, sentìì l’auto sfuggirmi dalle mani e, dopo un testacoda, ci ritrovammo nel campo adiacente la carreggiata.
“Ti sei fatto nulla David?” Gli chiesi subito preoccupato.
“No, nulla signor Abraham, ma ora dobbiamo tirarci fuori da qui”.
Fortunatamente il signor Ryan era sempre occupato a coltivare i propri campi per farli rinascere a nuova vita a ogni inizio stagione e, vedendo la scena, arrivò immediatamente con il suo trattore.
“Salve signor Zapruder, cosa è successo. Vi siete fatti male?”
“No niente signor Ryan, ma avrei bisogno di una mano per riportare l’auto in strada”. “Non ci sono problemi, in un attimo potrà ripartire. Ma dove andava così di gran fretta?” “Sono tornato a casa a riprendere la mia cinepresa, oggi a Dallas arriva il Presidente Kennedy, e volevo immortalarlo per i posteri. Lei non viene?”
“No signor Zapruder non vengo, ho cose più importanti da fare nei miei campi che vedere una sfilata di politici in auto. Anzi se vuole dire al corteo presidenziale di venire a darmi una mano, l’accetterei volentieri, mi farebbe davvero piacere”.
Una risata generale avvolse tutti e tre, mentre io e David risalimmo in macchina per riprendere il viaggio verso Dallas, salutando e ringraziando nuovamente il signor Ryan. Anche se con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia arrivammo all’ufficio proprio mentre l’organizzazione presidenziale cominciava a chiudere le varie strade intorno a Dealy Plaza, per non intralciare il corteo durante il suo percorso. Marilyn ci accolse preoccupata ma si tranquillizzò subito vedendo che sia io che suo figlio eravamo in ottima forma, e subito dopo mi disse, quasi implorandomi: “Adesso signor Abraham, dobbiamo scendere in strada per vedere meglio, da quassù è troppo lontano per riprendere il passaggio”.
Ascoltavo curioso la mia segretaria, vedendo con piacere quanto fosse coinvolta: un giorno speciale da ricordare e far rivedere a chi sarebbe venuto dopo di noi, e lei era felice di essere partecipe di questo evento quasi unico. Scendemmo tutti e tre in strada, mentre io cercavo un punto ottimale per riprendere la scena. “Signora Sitzman salgo su quella collinetta, mi sembra un ottimo posto, da lì potrò vedere bene quando le macchine arriveranno da Houston Street e gireranno verso Elm Street, c’è anche un muretto di cemento, potete sistemarvi lì lei e David”, dissi io mentre mi dirigevo, con la mia cinepresa sotto braccio, verso quella montagnola erbosa. Erano quasi le dodici e trenta e il serpentone di auto stava arrivando da Houston Street, come previsto, per immettersi su Elm Street. Stringevo con forza la mia cinepresa mentre la signora Sitzman mi teneva da dietro il cappotto per darmi più stabilità. Poco dopo dalla curva sbucarono come d’incanto le grosse moto degli agenti della scorta che precedevano il corteo e, subito dietro, la macchina del Presidente Kennedy con al seguito altre auto della sicurezza. La giornata era diventata splendida con un cielo azzurro e un sole tiepido. L’accoglienza era magnifica e calorosa, una folla di oltre cinquemila persone era in delirio, mentre la First Lady, Jacqueline Kennedy, era raggiante nel suo completo rosa. I palazzi che abbracciavano il corteo presidenziale erano decorati con centinaia di striscioni tinteggiati di rosso, bianco e blu, dalle finestre venivano lanciate migliaia di stelle filanti, mentre fragorosi boati di gioia e di felicità accompagnavano il passaggio delle auto. Ero davvero felice di essere tornato a casa a riprendere la cinepresa, sapevo bene che dovevo ringraziare la mia segretaria per avermi quasi obbligato a filmare testimoniare un giorno così importante per la storia americana. In quel momento, proprio sotto di me, passò l’auto del Presidente Kennedy, mentre la moglie Jackie gli stava aggiustando amorevolmente la cravatta. Ero emozionato e concentrato sulla ripresa allo stesso tempo, e fu in quel preciso momento che la mia mente fu usurpata con violenza da uno..due..tre spari. Non capivo da dove potessero essere partiti e se ce furono altri, non capivo assolutamente nulla di cosa poteva essere successo. Continuai con fermezza a seguire con la cinepresa la macchina del presidente, mentre questa prendeva sempre più velocità, e sono certo che la mia mano ferma di sarto mi aiutò a non farmi cadere la cinepresa dalle mani. Il serpentone del corteo presidenziale assomigliava a un lungo filo nero che si dipanava per le vie della città, simile ai fili di cotone che io usavo per imbastire abiti di ogni genere; senza rendermene conto stavo cucendo il vestito alla storia americana. Un vestito crudele e assassino che sarebbe rimasto per sempre cucito sulla pelle di ogni americano, e non solo. Con la mia cinepresa, quasi senza volerlo, avevo filmato quei pochissimi millimetri di storia che mai si sarebbero dissolti nel tempo e, mentre l’auto del Presidente Kennedy imboccava a tutta velocità il tunnel di Commerce Street per dirigersi verso il Parkland Hospital, mi rendevo conto che certi appuntamenti sono segnati, e non basta uscire di strada a una curva bagnata per impedirti di esserci.
Rodolfo Andrei
Adoro l’effetto filigranato. Un ritratto di campagna molto realistico.
Grazie per il tuo pensiero FRAVIKINGS 🙂
Grazie a te per averlo condiviso!