“Malinconie di un padre” di Iole Cianciosi


“Malinconie di un padre” di Iole Cianciosi

Mi ero svegliato presto, quella mattina. Il cielo minacciava pioggia, i campi di grano  sonnecchiavano ancora nell’eterno silenzio di ogni spiga che oscillava solo impercettibilmente  in una mutabile e serena grazia. C’era un buon odore di legno bagnato e caffè caldo che  gorgogliava con insofferenza. Faceva freddo. Il primo sorso di latte mi ricordò che avrei dovuto  tagliare il prato, quel giorno. Il secondo sorso mi fece tornare in mente che domani sarebbe  stato il compleanno delle bambine, il terzo che sarei dovuto andare a pisciare. La brina del  laghetto congelava i ricordi, la nebbia del mattino si sfrangiava appena, fili leggeri di  malinconia. Joyce dormiva. Le mie macchine fotografiche riposavano sulla parete più in alto  della credenza. Mi misi la giacca a vento. Da queste parti il grano cresce a luglio, ma luglio  resta un mese fresco. Mi infilai sulla testa la tracolla di pelle della macchina fotografica. Uscii.  Il vialetto era deserto, ogni filo d’erba luccicava di luce e brina. Tutte le stelle del firmamento  si erano spente, il mio destino vacillava, quasi caddi mettendo il piede destro nel fango. Maledii  la pioggia, proseguii sulla strada. Fare fotografie è un modo per stabilire un contatto con il  mondo; è il mio personale approccio per confondermi con la realtà. Su questa strada fioccano  incidenti come neve, tutti corrono con i loro rottami e poi si rompono il collo per schivare un  riccio o una volpe. Morti banali di schianti e assordanti rumori. La mattina è un groviglio denso  di impegni. Tra i momenti fotografo. Comprare il pane, due scatti. George che corre dalle sette  alle otto, una fotografia. Covoni di paglia sul camion di Henry di fronte casa mia: tre scatti.  Tutta quella gente che parte per l’America e chissà se e quando tornerà: una decina di foto. E  a Natale e alle feste di questo strano posto che appartiene solo al tempo e non allo spazio, alla  natura che s’incrina ogni giorno, ai fiori della festa, alle antiche case, alle strade bagnate dalla  pioggia e ancora, ancora…  

Sono le sette di sera. Le mie bambine inchiodate a un’altalena con il prato che le inghiotte e la  terra che frana nei ricordi più profondi di un uomo ramingo in lungo e in largo in questa  conurbazione piovosa e immensa e triste e depressa, in questa terra di luce e magia. Bambine,  mie care, sono quasi le otto, dobbiamo andare a casa. Loro sorridono, ondeggiano su quelle  travi antiche sorrette da corde robuste. Mi guardano e non parlano. Il tempo sospeso si dilata  in eternità. In quello sguardo sta tutta la mia esistenza. E non torneremo a casa per cena neanche  sta sera. Compare Venere, tra la luna e altre stelle. Rincalzo, perentorio. Sono un pessimo  padre, penso. Sorridono. Ancora cinque minuti, papà. Poi scompaiono e resta solo una  fotografia e le altalene oscillano lente e vuote. È notte, sono solo. L’oscurità mi trafigge. La  terra mi avvolge. Profumo di muschio, un filo di vento mi sibila lento sull’orecchio sinistro.  Chiudo gli occhi. Un ultimo scatto.  

Scompaio anch’io. 

Iole Cianciosi

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