“La piccola storia di Pim” di Italo Papini


“La piccola storia di Pim” di Italo Papini


Il gatto ciondolava esausto, come un dente solitario nella bocca di un vecchio 

Nonostante la parvenza, grazie alla tecnica felina affinata negli anni, vanto della sua esistenza, pari alla sua folta pelliccia color inverno che ben si sposava con la situazione meteorologica attuale, con la coda dell’occhio intercettò il bidone dell’immondizia, collocato con cura dietro casa.  Conosceva la zona come le sue zampe. L’odore invitante era di pesce marcio ed il balzo agevole. Ben altre altitudini lo avevano visto protagonista, quel bidone di metallo era un gioco da micetti. Il salto, come al solito preciso ed elegante, lo issò sul bordo del bidone. 

Si affacciò per scrutare con i suoi occhi gialli l’interno e lo vide. 

Lo shock fu immediato, inaspettato e doloroso. 

Cadde all’indietro dimenticando per un momento le sue naturali attitudini feline, rotolando malamente sulla poca neve che copriva il marciapiede e sbattendo il muso in malo modo. Dolore e giramento di capo. 

“Scio’, via gattaccio rognoso!” 

Con la sua spiccata attitudine agli stereotipi, Jan Visser, operatore ecologico di stanza nel nulla dei dintorni di Leida, tentò di mollare un calcio alle terga del gatto, mancandolo clamorosamente. Si guardò intorno: nessuno che potesse prenderlo per il culo, quindi tutto bene, no problem. D’altronde a chi poteva venire in mente di aggirarsi in quel posto, con quel freddo, a quell’ora. 

Il fatto di essere spesso bersaglio dei dileggi dei suoi colleghi aveva scavato nel suo ego un buco, una depressione, come ce ne sono tante in quel paese sotto il livello del mare, dove colava e ristagnava il suo complesso di inferiorità. 

Jan passava da quelle parti una volta a settimana, di venerdì, per ripulire il bidone prima che i signori che venivano a passarci il weekend tornassero per annusare un po’ di vita agreste. Cosa ci sarà mai stato poi da annusare in quel posto dimenticato dal mondo… 

Anche lui, come il felino ciondolante, aveva affinato una tecnica precisa per svolgere al meglio il suo lavoro. Che consisteva nello svuotare i bidoni nel camion, senza curarsi del sottobosco. Nessuno sguardo al contorno quindi, ma passo deciso e ponderato verso il bidone. 

Maniglia destra, maniglia sinistra, bicipiti e addominali in tensione… hop! 

Il bidone rimase fermo, inchiodato come gli occhi di un sedicenne su pornhub. Inevitabile lo sguardo tutt’intorno, a scanso di equivoci, per certificare che no, non c’era nessuno. Non c’era più nemmeno il gatto. Meglio. 

Jan si affacciò alla bocca del bidone.  

Sbatté un paio di volte le palpebre, per mettere a fuoco l’immagine. Poi prese lo smartphone e chiamò la polizia. 

La notizia occupò abusivamente lo spazio della pubblicità, sul lato sinistro della pagina dedicata alla cronaca locale e agli annunci mortuari. 

Un trafiletto con un titolo anonimo, in grassetto, firmato da un altrettanto anonimo “la redazione”. Una punteggiatura asfittica era il corollario di quella notizia. 

Non c’era scritto granché: si ipotizzava che il tizio congelato ritrovato nel bidone fosse un senzatetto settantenne che aveva cercato rifugio in quella landa, trovando solo desolazione e una casa disabitata. Il fatto che fosse nel bidone, in posizione fetale, suggeriva che avesse scelto quel posto per dormire. Comunque la polizia regionale stava indagando, ma con calma. 

La colonna del giornale continuava con i ringraziamenti per il decennale della scomparsa di tal Franck Winter, compianto dai familiari tutti, volontariamente dimentichi di quanto fosse stato stronzo in vita. J.V. ritagliò con cura il trafiletto che lo vedeva testimone del ritrovamento di un cadavere e lo fece plastificare alla eliografica del paese. Quei pochi attimi di celebrità presero posto nel portafoglio, piccolo ma significativo trofeo di una vita fino a quel momento anonima. 

Andò a dormire certo che il domani sarebbe stato migliore e si addormentò di colpo. 

“Pim! Piiiiim!” 

“Arrivo, mamma!” 

Le impronte lasciate nella neve fresca piacevano molto a Pim. A lui piaceva tutto dell’inverno. Non soffriva il freddo pungente: si calcava il berretto in testa e teneva le mani chiuse a pugno nelle tasche del cappotto che era stato di suo padre, prima che morisse alla costruzione della diga. E anche quella volta, prima di entrare in casa, diede uno sguardo alla processione di orme che aveva lasciato dietro di sé, fino dove si poteva vedere, oltre quel recinto di bassi cespugli che separava il cortile di casa dal cortile immenso e disadorno della landa imbiancata di neve. Leida era lontana. Famke aveva preparato il pranzo e tutto era in tavola. 

A Pim piacevano le patate e sua madre ne comprava molte quando il giovedì andava in città con il furgone per fare la spesa. Vivevano di un sussidio statale per le vittime del lavoro, nella casa che, per fortuna, le aveva lasciato suo padre. Un po’ fuori mano, certo, ma era un tetto sulla testa per lei e per il giovane Pim. 

Jan si alzò per andare in bagno alle 3 e 25. Doveva decidersi di fare quella visita per la prostata. Si rimise a letto dopo aver bevuto un lungo sorso d’acqua, fiducioso di poter riprendere sonno e continuare il suo sogno. 

Pim chiuse la valigia e la legò con uno spago per essere più sicuro. Gli amici hippy sarebbero passati tra poco a prenderlo, per andare. Dove non era importante. 

Si chiuse la porta alle spalle, poi si voltò verso quel legno che lo aveva protetto nelle notti d’inverno, a cercare di nuovo sua madre che gli sorrideva e lo salutava mentre andava alla scuola serale. Famke se n’era andata una mattina, di domenica. Aveva lasciato il suo corpo esausto nel letto, con i capelli a corolla sul cuscino, senza un’apparenza di dolore. Un infarto, sa, succede anche alle donne… aveva il cuore stanco. 

Pim aveva usato i pochi soldi rimasti dall’ultimo versamento del sussidio per un mazzo di fiori per sua madre e un sacchetto di patate. Aveva mangiato, mentre fuori la neve cominciava a scendere lentamente sul lontano dolore per il padre e sul vicino dolore per la madre, anestetizzando tutto, anche la paura della solitudine.  

Quando arrivarono i suoi amici salì sul pulmino e sparì dal Randstad. 

Jan si alzò per pisciare di nuovo, appena in tempo per non farla nel letto. Si ributtò sul materasso esausto, con il pensiero di una prostata in pessime condizioni e di una casa che lo attirava come una calamita. 

Pim quella porta di legno ce l’aveva davanti agli occhi ogni sera, poco prima di chiuderli, ed ogni mattina, poco prima di riaprirli, insieme alla voce di Famke e al sapore delle patate stufate. Hai voglia di girare il mondo alla ricerca di te stesso, devi fare i conti con il passato, sempre. Nostalgia della neve fresca, delle impronte fino all’albero, di quel “Piiiim!” che annunciava il cibo o una commissione o un rimprovero. Sono le cose semplici che fanno la vita: voci, odori, sguardi. E quella casa che non si spiccicava dalla sua mente e che avrebbe voluto rivedere. Si mise a chiedere l’elemosina e in pochi giorni racimolò gli spiccioli per un biglietto del treno. A settant’anni, con quel cappotto indosso e con lo sguardo di chi ha perso ogni curiosità (o che ha visto tutto ormai, che è la stessa cosa) impietosiva anche il più duro dei tedeschi.  

Era tempo di tornare a casa, si disse, nel niente di quel posto che da bambino chiamava casa. Glielo doveva: al cappotto di suo padre, a Famke, a quel Pim che, da qualche parte nel tempo, voleva ancora sorprendersi guardando le orme nella neve fresca.  

Arrivò alla stazione di Leida e si mise in cammino.

Arrivò a casa alle sette di sera. Faceva buio, era freddo, la neve scendeva piano. E la casa era ancora lì. Se la ricordava così, forse, con i bassi cespugli a distanziarla dal niente, con la finestra grande della cucina, con la porta di legno. 

Beh, ad onor del vero quella era la fotografia che aveva negli occhi. In realtà la casa era stata abbondantemente ristrutturata, c’erano delle siepi intorno, il tetto era nuovo e la campagna si era popolata di case sparse che davano una parvenza di comunità. 

Ma quegli occhi non vedevano che quella casa, quella porta, il viso di sua madre che dalla finestra lo guardava, come si guarda un gioiello prezioso. 

Faceva freddo, la casa era disabitata. Pim fece un giro dietro, per trovare un posto dove dormire. Si accomodò in un bidone di metallo. Ci aveva dormito altre volte, non sarebbe stato una tragedia. Si calcò il berretto in testa e si raccolse come un bambino in grembo a sua madre. 

Jan Visser fu interrogato dalla polizia e raccontò del sogno. Gli dissero di non andare al lavoro per qualche giorno e di riposare. 

Quando rientrò al lavoro cominciò a guardare con sospetto i bidoni di metallo. Gli mettevano ansia. Così iniziò a svuotare solo quelli di plastica. Il suo capo, dopo le lamentele di numerosi cittadini, lo licenziò. No, gli disse, non sei cambiato… sei rimasto il solito coglione!

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